di Carlo D’Angió: “I protocolli che uccidono” – L’assurda morte dell’avv. Salvatore Manca
Di: Carlo D’Angió

“La paura degli italiani? È quella di avere un malore o di ferirsi in modo grave da richiedere le cure di un ospedale. Non tanto perché la sanità italiana – che viene incomprensibilmente raccontata come un’eccellenza – lascia con metodica precisione molte migliaia di morti lungo la sua scia di negligenze, colpe, fatiscenza etc., quanto piuttosto per i nuovi protocolli anti-covid.
Guai ad avere una colica o un attacco di appendicite, guai a rimanere ustionati o vittime di un incidente anche domestico. Il protocollo del tampone è lì che ti aspetta. Con i suoi tempi. Con la sua inspiegabile obbligatorietà.
Se il Piave mormorò “non passa lo straniero”, il protocollo di Speranza è ancora più perentorio, impietoso e assurdo: non passa più nessuno, neanche l’italiano.
È quanto accaduto all’avv. Salvatore Manca, 61 anni, di Sassari, tra il 21 e 22 agosto, giorno del suo decesso a causa di una dissezione dell’aorta, al pronto soccorso dell’ospedale di Olbia.
Era andato in ospedale con fortissimi dolori al torace. Lui stesso aveva compreso di essere stato colpito da un malore particolarmente grave. Si rendeva conto che era urgente intervenire con le cure mediche adeguate. E quando fu messo in isolamento e poi tamponato e poi lasciato solo per ore come in uno scherzo televisivo di cattivo gusto, aveva chiesto di chiamare i carabinieri, affinché qualche anima pia in quell’ospedale di meticolosi protocolli, qualche medico ancora in scienza e coscienza, o qualche inserviente, persino, capace di sentire ancora quell’antica e mistica “empatia umana” che spesso è più eroica di un’equipe di blasonati accademici, potesse razionalmente stabilire le priorità e avviare una procedura medica di salvataggio. Almeno, provarci.
Ma il protocollo di Speranza, feroce e implacabile, colpisce ancora. Senza i risultati del tampone, qui non passa nessuno.
E così il povero Manca, 61 anni, la mattina del 22 agosto, tra i dolori lancinanti e una brutale condizione di solitudine (da protocollo), è morto per una dissezione dell’aorta da cui poteva essere salvato.
Le nostre vite scorrono frenetiche tra le mille cose da fare ogni giorno. Nonostante i divieti, le mascherine, i figli reclusi nei moderni campi di concentramento mentale, milioni di persone un po’ sprovvedute, un po’ rassegnate, un po’ costrette, vanno al lavoro, fanno la spesa, incontrano colleghi, amici, viaggiano, frequentano chiese, centri commerciali e così via.
La loro mente è lontana dalle angosce di chi, come il povero Manca, è costretto a varcare la soglia di quelli che un tempo erano luoghi di cura del paziente, oggi trasformati in stanze disadorne di atroce isolamento che sempre più spesso precedono una morte indecorosa e disumana.
Se Manca fosse rimasto nel letto di casa, ci avrebbe guadagnato in dignità: sarebbe morto ugualmente, ma tra le braccia di chi lo amava, circondato dall’amore.
Eppure, ciascuno di noi, in quella vita frenetica che ogni giorno lo tiene lontano dalle pene che affliggono gli altri, può essere colto da un malore o rimanere vittima di un incidente. E quando ciò accade, quando il mondo si ferma di colpo e ti scaraventa addosso l’insopportabile idea di essere sul punto di morire, rimestandola con sensazioni sconosciute di ansia e paura che derivano dallo shock del momento, c’è una sola luce nel buio infinito dell’universo a cui la nostra mente può aggrapparsi, una flebile fiammella, ed è quella di un ospedale in cui qualcuno con il camice bianco almeno provi a prendersi cura di te.
Se questa fiammella si spegne, come in effetti sta avvenendo, sotto il vento gelido e spietato dei protocolli di questo governo e della sua scellerata scienza da grandi magazzini, in preda al disinteresse di una classe politica e sociale che non riesce più a sentire, né a vibrare, come fanno due rami di uno stesso albero, allora finisce ogni cosa.
Cala il sipario. Crollano gli argini del vivere civico. Si esaurisce il senso dello Stato, della fratellanza, della tolleranza. Pacta NON sunt servanda. Le regole non sono più regole, ma atti di sfida, colpi di arma da fuoco sparati con l’ignavia dei DPCM sui corpi distanziati di un assembramento di menti non pensanti.
Non ci può essere una giustificazione sul fatto che un uomo, oggi, possa morire in ospedale nell’indifferenza glaciale di medici e infermieri che in nome di un protocollo insensato scelgono di non prestare le cure a chi quelle cure mostra di averne un bisogno urgente.
Non ho mai biasimato quei medici che nell’esercizio delle loro funzioni, nel tentativo di salvare una vita, possano in buona fede anche commettere degli errori fatali per il paziente.
Ma questi non sono errori commessi in buona fede nell’esercizio autonomo delle funzioni mediche. Sono omissioni, atti volitivi contro la vita (art. 593 del codice penale) compiuti oltretutto da soggetti “teoricamente” qualificati, ma che nella pratica molto spesso si comportano come degli autentici cialtroni, assumendo decisioni automatiche, non ponderate, sulla base di protocolli che non dovrebbero esonerare il medico dal valutarne il contenuto e l’affidabilità scientifica in relazione alle caratteristiche del singolo caso clinico da affrontare.
L’esercizio professionale del medico è fondato sui principi di libertà, indipendenza, autonomia e responsabilità. Il medico ispira la propria attività professionale ai principi e alle regole della deontologia professionale senza sottostare a interessi, imposizioni o condizionamenti di qualsiasi natura (art. 4 del codice deontologico del medico).
Molti anni fa, Walt Whitman, considerato il padre della poesia americana, scrisse: io non chiedo al ferito come si senta, io divento il ferito.”
(Carlo D’Angiò)
