La festività de I MORTI in Sicilia. Dal mio diario personale…, ed il racconto di Andrea Camilleri

Pagina di diario, (di Monica Tomasello)

Ricordo ancora il senso di incredulità misto a smarrimento che mi pervase la prima volta che trascorsi la festività dei Morti da “emigrata”…

Mi ero trasferita da poco nelle Marche, in quel di Pesaro/Urbino, e dato che la Festa di Ognissanti, e quindi quella dei Morti, si stava avvicinando, decidemmo io e mio marito di uscire per andare a comprare i giocattoli per i nostri figli, per poi farglieli trovare, come da tradizione, nascosti da qualche parte della casa, facendogli credere che glieli avevano portati i Morti, ovvero le persone care che non c’erano più, come i nonni defunti ad esempio…

Nonostante sapessimo che la domenica a Pesaro tutti i negozi fossero sempre. a meno che non ci fosse qualche festività in arrivo, rigorosamente chiusi,, fiduciosi uscimmo convinti che certamente almeno i negozi di giocattoli sarebbero stati aperti. Ma con nostra grande sorpresa scoprimmo che non era così… Allora chiamammo al telefono una collega di lavoro di mio marito per chiedere lumi.

Ebbene, a ripensarci adesso, la cosa assume caratteri tra il macabro e l’esilarante. Infatti all’inizio lei nemmeno capì di cosa stessimo parlando; anzi notammo nella sua voce una certa dose di incredulità nel sentirci parlare di una “festa dei morti”, dove questi ultimi, per giunta, portavano doni ai bambini come se fossero Babbo Natale…

Fu così che ci rendemmo conto che fuori dalla Sicilia non hanno idea di cosa sia la Festa dei Morti… Pur essendo adusi, al di là dello Stretto, a festeggiare Halloween, festa di provenienza per lo più americana, nulla sanno invece di questa tradizione dei loro connazionali Siciliani e se gliela racconti probabilmente trovano pure la cosa un po’ macabra…

Ma si sa, il rapporto con la morte di noi siciliani è diverso dal resto d’Italia e forse anche del mondo.

Noi ci conviviamo con la morte… Noi siamo fatalisti. Noi diciamo “L’avemu signatu quannu amu a moriri” (“Lo abbiamo segnato quando dobbiamo morire”). Noi siciliani, attenti come siamo ai nostri “picciriddi” (piccolini, bambini), ci siamo preoccupati di tenerli allegri persino in un giorno triste quale quello della Commemorazione dei Defunti, ed in qualche modo, dato che la felicità dei bambini è un po’ anche la nostra, in questo modo alleggeriamo il nostro stesso dolore nel ripensare ai nostri cari che purtroppo non ci sono più accanto in questa vita…

La morte non è niente

A proposito del dolore per chi non c’è più, apro una piccola parentesi riproponendovi la lettura di un bellissimo testo, “La morte non è niente”, bellissima poesia di Henry Scott Holland.

Qui la mia versione in radio di qualche anno fa… ⤵️

Il racconto di Camilleri

Il grande Andrea Camilleri, siciliano doc, ha scritto una delle sue pagine più belle proprio riguardo a come i siciliani vivono questa festività ed alle tradizioni che la accompagnano.

Il giorno dei Morti – da Racconti quotidiani di Andrea Camilleri

“Fino al 1943, nella nottata che passava tra il primo e il due di novembre, ogni casa siciliana dove c’era un picciliddro si popolava di morti a lui familiari.
Non fantasmi col linzòlo bianco e con lo scrùscio di catene, si badi bene, non quelli che fanno spavento, ma tali e quali si vedevano nelle fotografie esposte in salotto, consunti, il mezzo sorriso d’occasione stampato sulla faccia, il vestito buono stirato a regola d’arte, non facevano nessuna differenza coi vivi. Noi nicareddri, prima di andarci a coricare, mettevamo sotto il letto un cesto di vimini (la grandezza variava a seconda dei soldi che c’erano in famiglia) che nottetempo i cari morti avrebbero riempito di dolci e di regali che avremmo trovato il 2 mattina, al risveglio.

Il “Cannistro”, cestino di vimini ripieno di dolci

Eccitati, sudatizzi, faticavamo a pigliare sonno: volevamo vederli, i nostri morti, mentre con passo leggero venivano al letto, ci facevano una carezza, si calavano a pigliare il cesto. Dopo un sonno agitato ci svegliavamo all’alba per andare alla cerca. Perché i morti avevano voglia di giocare con noi, di darci spasso, e perciò il cesto non lo rimettevano dove l’avevano trovato, ma andavano a nasconderlo accuratamente, bisognava cercarlo casa casa. Mai più riproverò il batticuore della trovatura quando sopra un armadio o darrè una porta scoprivo il cesto stracolmo. I giocattoli erano trenini di latta, automobiline di legno, bambole di pezza, cubi di legno che formavano paesaggi.

 

Avevo 8 anni quando nonno Giuseppe, lungamente supplicato nelle mie preghiere, mi portò dall’aldilà il mitico Meccano e per la felicità mi scoppiò qualche linea di febbre.

I dolci erano quelli rituali, detti “dei morti”: marzapane modellato e dipinto da sembrare frutta, “rami di meli” fatti di farina e miele, “mustazzola” di vino cotto e altre delizie come viscotti regina, tetù, carcagnette. Non mancava mai il “pupo di zucchero” che in genere raffigurava un bersagliere e con la tromba in bocca o una coloratissima ballerina in un passo di danza.

“Pupi” di zucchero

Frutta di marzapane

Mustaccioli, o Mustazzola, di vino cotto

Rami di meli, biscotti con farina e miele

Rame di Napoli / Carcagnette

A un certo momento della matinata, pettinati e col vestito in ordine, andavamo con la famiglia al camposanto a salutare e a ringraziare i morti. Per noi picciliddri era una festa, sciamavamo lungo i viottoli per incontrarci con gli amici, i compagni di scuola: «Che ti portarono quest’anno i morti?». Domanda che non facemmo a Tatuzzo Prestìa, che aveva la nostra età precisa, quel 2 novembre quando lo vedemmo ritto e composto davanti alla tomba di suo padre, scomparso l’anno prima, mentre reggeva il manubrio di uno sparluccicante triciclo.

Insomma il 2 di novembre ricambiavamo la visita che i morti ci avevano fatto il giorno avanti: non era un rito, ma un’affettuosa consuetudine. Poi, nel 1943, con i soldati americani arrivò macari l’albero di Natale e lentamente, anno appresso anno, i morti persero la strada che li portava nelle case dove li aspettavano, felici e svegli fino allo spàsimo, i figli o i figli dei figli. Peccato. Avevamo perduto la possibilità di toccare con mano, materialmente, quel filo che lega la nostra storia personale a quella di chi ci aveva preceduto e “stampato”, come in questi ultimi anni ci hanno spiegato gli scienziati. Mentre oggi quel filo lo si può indovinare solo attraverso un microscopio fantascientifico. E così diventiamo più poveri: Montaigne ha scritto che la meditazione sulla morte è meditazione sulla libertà, perché chi ha appreso a morire ha disimparato a servire.”

Buona Festa dei Morti  e buon Ognissanti a tutti!

 

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